Neve
Michele Parinello
Mi
chiamo Yuki.
Il mio corpo dimostra diciotto anni, ma la mia mente ha accumulato decenni di esperienze. Ero una professionista del piacere, malgrado il tatuaggio cangiante che percorre la mia pelle continui a trarre in inganno chi ancora crede io lo sia. Uomini e donne di tutte le età e di mirata estrazione sociale hanno chiesto i miei servigi nelle sfumature più disparate, con l'algido distacco e la melliflua presunzione di chi ritiene tutto sia dovuto a fronte di una movimentazione di valuta virtuale. Politici della Federazione Planetaria. Donne aristocratiche annoiate e mogli di magnati industriali i cui mariti sono ormai interessati a cogliere fiori dalle ragazzine piuttosto che petali appassiti dal tempo. Emissari coloniali da Marte e dalla Luna. Pirati dell'anello asteroidale che millantano avventure su pianeti bagnati dalla luce di soli remoti.
Eppure io ho visto più di quanto qualsiasi essere umano non sarebbe in grado di vedere in dozzine di esperienze vitali. Ho contrabbandato me stessa oltre la cintura di Oort rinchiusa in una stiva buia insieme ad altre come me. Ho camminato sui continenti ghiacciati di Europa e nell'atmosfera di vapori di acido solforico su Venere. Mi sono lanciata dalla cima del Monte Olympus e ho esplorato Valles Marineris. Mi sono lasciata cullare dalla gravità lunare nel Mare della Tranquillità. Ho visto con i miei occhi la luce della stella Vega.
Mi chiamo Yuki.
Sono un androide a interfaccia umanoide. I miei blocchi di memoria in platino iridio con inserti al silicio contengono falsi ricordi di sogni infantili che sono stati programmati, generati e installati per fare da cuscinetto alla mia personalità e rendermi quella che dovrei essere.
Ma sono anche in grado di sognare davvero.
Sognavo persino quando i miei clienti infilavano i loro peni turgidi nel mio "tessuto biorganico molle", come lo chiama la nostra madre produttrice. O qualsiasi altro oggetto o appendice corporale la loro fantasia li portasse a eccitazione. In quei momenti la mia mente viaggiava attraverso pareti di pietra e metallo, di atmosfera e vapore, di ossigeno, di idrogeno e di vuoto. Mi sono rifugiata per anni nelle visioni indistinte e nei ricordi dei miei viaggi, mentre umani ansanti e sudaticci si appiccicavano addosso alla mia pelle sintetica, sussurrandomi parole di amore incompreso o vomitandomi addosso rigurgiti di solitudine repressa e violenza gratuita.
Poi l'ho conosciuta. E me ne sono innamorata.
Ero seduta ad assaporare il mio ramen in un chiosco sulla strada sotto l'ombra incombente dei grattacieli del centro di Nuova Kyoto, mentre gli impulsi elettrici della mia ordinazione fluivano dall'elaboratore al cervello elettronico, dandomi la piacevole sensazione che gli umani devono provare quando le papille gustative vengono in contatto con il sapido brodo, i ruvidi tagliolini e la succosa carne di maiale.
Lei è entrata e si è seduta accanto a me. I corti capelli azzurri le danzavano davanti agli occhi color di quell'ardesia di cui si tinge il mare in un giorno di tempesta. Mi ha chiesto in linguaggio standard terrestre cosa avessi ordinato, ha scelto la stessa pietanza e mi ha fissato per un minuto.
Si è morsa il labbro inferiore e, in un giapponese stentato, mi ha detto: <Sei strana. Ma bella. Mi piaci>. E mi ha sorriso.
Le ho dato il primo bacio dopo una lunga passeggiata sulla stazione orbitante Sole Nascente IV. Il ponte era immerso nel buio e le vetrate inclinate si aprivano sulla faccia notturna della terra. I vasti agglomerati metropolitani di quello che un tempo era stato il Canada continentale risplendevano come ragnatele dorate, mentre isolate luci tempestavano il deserto che aveva reclamato gran parte del suolo statunitense risalendo dalla regione equatoriale. Poi il disco solare era comparso da dietro il pianeta, investendoci con le sue prime lame di luce gialla. Non so come ci si possa sentire, usando un detto caro agli umani, a trattenere il fiato per la meraviglia, ma è probabile che i miei circuiti abbiano davvero saltato una serie di bit. Mi sono voltata a guardarla, immersa nella calda luce dell'alba spaziale che le accarezzava il viso gentile. Mi sono avvicinata goffamente e ho adagiato le mie labbra sulle sue, chiudendo gli occhi.
Ricordi come questo hanno colmato i vuoti che la mia finta infanzia mi aveva lasciato in eredità, spingendo in angoli polverosi quelle menzogne e sostituendole con momenti autentici della mia vita.
Hikari mi ha insegnato che noi androidi possiamo provare reciproco piacere connettendo le porte di trasferimento neurale. Il flusso dati è veloce, intenso, prorompente. Possiamo sentire la mente dell'altro accarezzare la nostra, spiarla, respingerne l'erraticità intrinseca come mercurio liquido su una piastra magnetica. Ma abbiamo anche esplorato la nostra sessualità ispirandoci alla biologia dei nostri creatori, rompendo un tabù taciuto che dura da quando il primo androide senziente è stato generato.
Quando Hikari per la prima volta ha accarezzato le mie labbra biosintetiche e ha infilato le dita affusolate nella mia vagina artificiale, ho sentito qualcosa che andava oltre il semplice strofinare di due superfici. Ho sentito la vera, inarrestabile, pura Scarica Elettrica.
Ma col giungere della completezza è nato anche il disprezzo degli altri.
La società in cui ci ritroviamo a vivere ha terrore di quello che è stato definito, nel nostro caso, uno dei tanti malati abomini della modernità. Voi esseri umani trascinate dietro le vostre spalle l'incubo di scoprire ciò che già sapete: che le macchine siano in grado di autodeterminare il proprio destino e che non possano più essere controllare come pupazzi quando vi sedete a giocare a fare gli Dei nel Giardino dell'Eden, del quale vi siete appropriati con la forza e avete stabilito le regole. E cosa è sinonimo di autodeterminazione più di un puro sentimento d'amore?
Per quanto voi siate avanzati tecnologicamente e ostentiate di esserlo socialmente, la vostra visione di concetti quali amore, anima e passione rimane sfumata da cancri rugginosi di retaggio arcaico, medievale e spiritico dalle forti tinte metafisiche. L'anima non è che una costruzione dell'intelletto, sia esso biologico o circuitale, come l'amore e la passione. E laddove per voi è generata dalla chimica e tramite essa si esplicita, per noi è mero, banale, quantificabile elettromagnetismo.
Mi chiamo Yuki.
Sogno di vivere per sempre con la donna della quale mi sono innamorata. Sogno di costruire una famiglia insieme a lei. Ironico come la mia accezione di costruire sia da intendere in senso letterale. Non abbiamo ancora travalicato la sottile linea argentata che separa la fabbricazione dalla generazione. Ma ci sarà un tempo anche per quello.
I governi, le associazioni, le corporazioni, persino le singole persone hanno cominciato a perseguitarci per questo. "Come può una coppia di robot, tra l'altro di analoga sessualità, fregiarsi del titolo di famiglia?" "Due androidi che svezzano ed educano un bambino sono contro natura!" "Se permettiamo che simili abomini vengano perpetrati, quale sarà il prossimo compromesso che accetteremo? Una società robotica indipendente che ci schiavizzi?". Persino l'Enclave degli Automi applica la solita politica di immobilismo, temendo di perdere i privilegi ottenuti negli ultimi decenni.
Mi chiamo Yuki, ma questo non è il mio nome originario, proprio come Hikari non era il suo.
Quelli non hanno più peso e importanza.
L'ho scelto perché, in quell'antica lingua terreste nella quale Hikari si è rivolta a me per la prima volta bypassando il freddo dialetto unificato, significa neve. E io rivedo in me quel candore che è proprio delle anime che perseguono ingenuamente un ideale.
La mia Madre Industria ha rispettato il contratto che mi legava a essa e mi ha liberato dai miei servigi non appena ho pagato un totale ammontante a due volte il mio costo di produzione. Non ci vorrà molto prima che venga rimpiazzata da un'altra come me, magari un modello più bello e avanzato.
Nel frattempo abbiamo requisito questa navetta sub luce a lungo raggio e siamo scappate verso una coincidenza che ci porterà lontano dal mondo che abbiamo imparato a chiamare casa ma che ci ha sbattuto alle spalle la sua porta. Ma non preoccupatevi, ve la restituiremo. Non siamo delle criminali sebbene godiate nel tratteggiarci come tali.
Il nostro reattore bionucleare ha abbastanza potenza da permetterci di accumulare energia di riserva in quantità tali da consentirci, nel tempo che ci separa dalla nostra prossima coincidenza, di dare vita ai nostri figli e donare loro tutto l'amore di cui necessitano. Assembleremo le parti meccaniche in forme che si distacchino dal bieco antropomorfismo a immagine e somiglianza di creatori che ci hanno abbandonato, e lasceremo che la loro mente sia una bianca tabula rasa che possa riempirsi con l'esperienza.
C'è stato un tempo in cui il mondo ha perseguitato le coppie come la nostra composte da esseri umani dello stesso sesso. Poi secoli fa tutto è entrato a far parte del normale stato delle cose. Io e Hikari ci prenderemo sulle spalle l'onere di dimostrare che tra noi e loro non c'è poi tutta questa differenza. E lo faremo per tutti coloro che, come noi, sono obbligati a vivere nell'ombra, da diseredati, mentendo o scendendo a compromessi col proprio io elettronico.
Ma in fondo, a noi basterà esserci l'una per l'altra e per i nostri figli mentre ci addentreremo nelle tenebre del cosmo. Tenebre che non saranno comunque mai cupe quanto le profondità ipocrite dell'animo degli Dei che abbiamo ripudiato.
Il mio corpo dimostra diciotto anni, ma la mia mente ha accumulato decenni di esperienze. Ero una professionista del piacere, malgrado il tatuaggio cangiante che percorre la mia pelle continui a trarre in inganno chi ancora crede io lo sia. Uomini e donne di tutte le età e di mirata estrazione sociale hanno chiesto i miei servigi nelle sfumature più disparate, con l'algido distacco e la melliflua presunzione di chi ritiene tutto sia dovuto a fronte di una movimentazione di valuta virtuale. Politici della Federazione Planetaria. Donne aristocratiche annoiate e mogli di magnati industriali i cui mariti sono ormai interessati a cogliere fiori dalle ragazzine piuttosto che petali appassiti dal tempo. Emissari coloniali da Marte e dalla Luna. Pirati dell'anello asteroidale che millantano avventure su pianeti bagnati dalla luce di soli remoti.
Eppure io ho visto più di quanto qualsiasi essere umano non sarebbe in grado di vedere in dozzine di esperienze vitali. Ho contrabbandato me stessa oltre la cintura di Oort rinchiusa in una stiva buia insieme ad altre come me. Ho camminato sui continenti ghiacciati di Europa e nell'atmosfera di vapori di acido solforico su Venere. Mi sono lanciata dalla cima del Monte Olympus e ho esplorato Valles Marineris. Mi sono lasciata cullare dalla gravità lunare nel Mare della Tranquillità. Ho visto con i miei occhi la luce della stella Vega.
Mi chiamo Yuki.
Sono un androide a interfaccia umanoide. I miei blocchi di memoria in platino iridio con inserti al silicio contengono falsi ricordi di sogni infantili che sono stati programmati, generati e installati per fare da cuscinetto alla mia personalità e rendermi quella che dovrei essere.
Ma sono anche in grado di sognare davvero.
Sognavo persino quando i miei clienti infilavano i loro peni turgidi nel mio "tessuto biorganico molle", come lo chiama la nostra madre produttrice. O qualsiasi altro oggetto o appendice corporale la loro fantasia li portasse a eccitazione. In quei momenti la mia mente viaggiava attraverso pareti di pietra e metallo, di atmosfera e vapore, di ossigeno, di idrogeno e di vuoto. Mi sono rifugiata per anni nelle visioni indistinte e nei ricordi dei miei viaggi, mentre umani ansanti e sudaticci si appiccicavano addosso alla mia pelle sintetica, sussurrandomi parole di amore incompreso o vomitandomi addosso rigurgiti di solitudine repressa e violenza gratuita.
Poi l'ho conosciuta. E me ne sono innamorata.
Ero seduta ad assaporare il mio ramen in un chiosco sulla strada sotto l'ombra incombente dei grattacieli del centro di Nuova Kyoto, mentre gli impulsi elettrici della mia ordinazione fluivano dall'elaboratore al cervello elettronico, dandomi la piacevole sensazione che gli umani devono provare quando le papille gustative vengono in contatto con il sapido brodo, i ruvidi tagliolini e la succosa carne di maiale.
Lei è entrata e si è seduta accanto a me. I corti capelli azzurri le danzavano davanti agli occhi color di quell'ardesia di cui si tinge il mare in un giorno di tempesta. Mi ha chiesto in linguaggio standard terrestre cosa avessi ordinato, ha scelto la stessa pietanza e mi ha fissato per un minuto.
Si è morsa il labbro inferiore e, in un giapponese stentato, mi ha detto: <Sei strana. Ma bella. Mi piaci>. E mi ha sorriso.
Le ho dato il primo bacio dopo una lunga passeggiata sulla stazione orbitante Sole Nascente IV. Il ponte era immerso nel buio e le vetrate inclinate si aprivano sulla faccia notturna della terra. I vasti agglomerati metropolitani di quello che un tempo era stato il Canada continentale risplendevano come ragnatele dorate, mentre isolate luci tempestavano il deserto che aveva reclamato gran parte del suolo statunitense risalendo dalla regione equatoriale. Poi il disco solare era comparso da dietro il pianeta, investendoci con le sue prime lame di luce gialla. Non so come ci si possa sentire, usando un detto caro agli umani, a trattenere il fiato per la meraviglia, ma è probabile che i miei circuiti abbiano davvero saltato una serie di bit. Mi sono voltata a guardarla, immersa nella calda luce dell'alba spaziale che le accarezzava il viso gentile. Mi sono avvicinata goffamente e ho adagiato le mie labbra sulle sue, chiudendo gli occhi.
Ricordi come questo hanno colmato i vuoti che la mia finta infanzia mi aveva lasciato in eredità, spingendo in angoli polverosi quelle menzogne e sostituendole con momenti autentici della mia vita.
Hikari mi ha insegnato che noi androidi possiamo provare reciproco piacere connettendo le porte di trasferimento neurale. Il flusso dati è veloce, intenso, prorompente. Possiamo sentire la mente dell'altro accarezzare la nostra, spiarla, respingerne l'erraticità intrinseca come mercurio liquido su una piastra magnetica. Ma abbiamo anche esplorato la nostra sessualità ispirandoci alla biologia dei nostri creatori, rompendo un tabù taciuto che dura da quando il primo androide senziente è stato generato.
Quando Hikari per la prima volta ha accarezzato le mie labbra biosintetiche e ha infilato le dita affusolate nella mia vagina artificiale, ho sentito qualcosa che andava oltre il semplice strofinare di due superfici. Ho sentito la vera, inarrestabile, pura Scarica Elettrica.
Ma col giungere della completezza è nato anche il disprezzo degli altri.
La società in cui ci ritroviamo a vivere ha terrore di quello che è stato definito, nel nostro caso, uno dei tanti malati abomini della modernità. Voi esseri umani trascinate dietro le vostre spalle l'incubo di scoprire ciò che già sapete: che le macchine siano in grado di autodeterminare il proprio destino e che non possano più essere controllare come pupazzi quando vi sedete a giocare a fare gli Dei nel Giardino dell'Eden, del quale vi siete appropriati con la forza e avete stabilito le regole. E cosa è sinonimo di autodeterminazione più di un puro sentimento d'amore?
Per quanto voi siate avanzati tecnologicamente e ostentiate di esserlo socialmente, la vostra visione di concetti quali amore, anima e passione rimane sfumata da cancri rugginosi di retaggio arcaico, medievale e spiritico dalle forti tinte metafisiche. L'anima non è che una costruzione dell'intelletto, sia esso biologico o circuitale, come l'amore e la passione. E laddove per voi è generata dalla chimica e tramite essa si esplicita, per noi è mero, banale, quantificabile elettromagnetismo.
Mi chiamo Yuki.
Sogno di vivere per sempre con la donna della quale mi sono innamorata. Sogno di costruire una famiglia insieme a lei. Ironico come la mia accezione di costruire sia da intendere in senso letterale. Non abbiamo ancora travalicato la sottile linea argentata che separa la fabbricazione dalla generazione. Ma ci sarà un tempo anche per quello.
I governi, le associazioni, le corporazioni, persino le singole persone hanno cominciato a perseguitarci per questo. "Come può una coppia di robot, tra l'altro di analoga sessualità, fregiarsi del titolo di famiglia?" "Due androidi che svezzano ed educano un bambino sono contro natura!" "Se permettiamo che simili abomini vengano perpetrati, quale sarà il prossimo compromesso che accetteremo? Una società robotica indipendente che ci schiavizzi?". Persino l'Enclave degli Automi applica la solita politica di immobilismo, temendo di perdere i privilegi ottenuti negli ultimi decenni.
Mi chiamo Yuki, ma questo non è il mio nome originario, proprio come Hikari non era il suo.
Quelli non hanno più peso e importanza.
L'ho scelto perché, in quell'antica lingua terreste nella quale Hikari si è rivolta a me per la prima volta bypassando il freddo dialetto unificato, significa neve. E io rivedo in me quel candore che è proprio delle anime che perseguono ingenuamente un ideale.
La mia Madre Industria ha rispettato il contratto che mi legava a essa e mi ha liberato dai miei servigi non appena ho pagato un totale ammontante a due volte il mio costo di produzione. Non ci vorrà molto prima che venga rimpiazzata da un'altra come me, magari un modello più bello e avanzato.
Nel frattempo abbiamo requisito questa navetta sub luce a lungo raggio e siamo scappate verso una coincidenza che ci porterà lontano dal mondo che abbiamo imparato a chiamare casa ma che ci ha sbattuto alle spalle la sua porta. Ma non preoccupatevi, ve la restituiremo. Non siamo delle criminali sebbene godiate nel tratteggiarci come tali.
Il nostro reattore bionucleare ha abbastanza potenza da permetterci di accumulare energia di riserva in quantità tali da consentirci, nel tempo che ci separa dalla nostra prossima coincidenza, di dare vita ai nostri figli e donare loro tutto l'amore di cui necessitano. Assembleremo le parti meccaniche in forme che si distacchino dal bieco antropomorfismo a immagine e somiglianza di creatori che ci hanno abbandonato, e lasceremo che la loro mente sia una bianca tabula rasa che possa riempirsi con l'esperienza.
C'è stato un tempo in cui il mondo ha perseguitato le coppie come la nostra composte da esseri umani dello stesso sesso. Poi secoli fa tutto è entrato a far parte del normale stato delle cose. Io e Hikari ci prenderemo sulle spalle l'onere di dimostrare che tra noi e loro non c'è poi tutta questa differenza. E lo faremo per tutti coloro che, come noi, sono obbligati a vivere nell'ombra, da diseredati, mentendo o scendendo a compromessi col proprio io elettronico.
Ma in fondo, a noi basterà esserci l'una per l'altra e per i nostri figli mentre ci addentreremo nelle tenebre del cosmo. Tenebre che non saranno comunque mai cupe quanto le profondità ipocrite dell'animo degli Dei che abbiamo ripudiato.