Burning In The Skies
Isabella Ronconi
Isabella Ronconi
Bene, eccoci qui.
Accidenti...
Non mi sono resa ancora del tutto conto di quello che sto per fare.
Non sono più tanto sicura di volerlo fare. Né sono sicura che voi
vogliate ascoltarmi.
Però... Lo
farò. Sento che è importante. Magari non per me e per la mia
aspettativa di vita tremendamente bassa – e che sta continuando ad
abbassarsi ad ogni sfarfallio dell'orologio olografico proiettato
sulla parete di fronte a me. Le Forze della Galassia potrebbero aver
già parcheggiato nel mio giardino. Ma sto tergiversando. Non sono
capace di usare il Suo trascrittore mentale. Lei è terribilmente più
brava di me in questo. La Sua mente non vacilla un attimo quando deve
prendere una decisione, i Suoi pensieri non si inerpicano per
tracciati tortuosi da cui poi è impossibile ritornare al punto di
partenza – che la mia mente tende invece a prediligere. Non ho il
tempo materiale di sedermi a rileggere tutto il mio elaborato una
volta terminato – non so nemmeno se lo terminerò, veramente, in
questo momento mi trovo sospesa in bilico su un fragilissimo filo –
fragile quanto lo stelo dei fiori Ne'he, così longilineo e
delicato...
Questa
testimonianza potrà non essere importante per me, ma sono
profondamente convinta che qualcuno, là fuori, nell'immensa,
terrorizzante e incantevole galassia, qualcuno stia alzando gli occhi
alla volta celeste e le stia chiedendo se c'è qualcuno come lui o
lei, in questo piccolo universo, se la sua esistenza varrà o meno
nella meravigliosa entropia che ci attornia. Se, piccola com'è, una
cellula in un organismo compatto, precisissimo nella sua totale
confusione, possa fare una differenza e cambiare, se non proprio
tutto, almeno qualche piccolo particolare dell'enorme dipinto in cui
quella persona è uno dei tanti dettagli.
E io le
voglio dire: sì. Tutti gli incendi iniziano con una minuscola
scintilla. Tutte le grandi rivoluzioni della storia iniziano con una
mano tesa al cielo. Tutte le più innovative evoluzioni sono iniziate
con un solo individuo che ha deciso di non essere
come tutto il resto. E
questo ha fatto la differenza. Questo individuo potrà non aver avuto
vita facile, il rivoluzionario che ha osato ribellarsi sarà stato
probabilmente giustiziato qualche secondo più tardi, la scintilla si
sarà consumata prima si attecchire sul legname – ma tutti, tutti
questi hanno fatto qualcosa. Hanno smosso la tranquillità che era
accanto a loro. Lascia che ti dica, ragazzo o ragazza, chiunque tu
sia, che “tranquillità” non è sempre sinonimo di “benessere”.
La tranquillità, molte volte, è oppressione di molti e omertà di
tutti. Non cercare la tranquillità che tutti ti indicano come
ideale. Scegli la tua personalissima tranquillità, non importa
quanto scompiglio porti nella vita degli altri. Anche se questa tua
tranquillità ti costringe a vivere con i giorni contati aspettando
che qualche Forza della Galassia ti prelevi di casa e ti sbatta in
cella, o non la tiri tanto per le lunghe e ti giustizi con un colpo
alla nuca nella tua stessa casa?
Questo
me lo dirai tu alla fine del mio racconto.
Mi
sono interrotta un attimo per andare a controllare alla finestra
della cucina, mi era sembrato di sentire un rumore. Non è vero che
non ho paura di morire – forse è questo che è trasparito dalle
mie prime parole, ma devo mettere in chiaro che è esattamente
l'opposto. Ho paura di non poter più fare colazione con frittelle
di poochun e sentirne il gusto dolce sulla punta della lingua. Ho
paura di– di non riuscire a vivere quel che mi rimane da vivere –
ma lo devo fare,
gliel'ho promesso prima che se ne andasse, gliel'ho promesso gliel'ho
promesso gliel'ho promesso... – e incidermi i polsi con un coltello
prima che chiunque riesca a prendermi e a portarmi via, viva. Ho
paura di consumare quel che mi rimane da vivere in una celletta
umidiccia, rimanere a rinsecchirmi e a morire di fame prima di
ricevere una pallottola con su scritto il mio nome nel cranio. No,
no, sicuramente non hanno una pallottola con il mio nome inciso
sopra, né sprecheranno inutilmente celle per una banalissima
ex-recluta che sarebbe dovuta morire già parecchio tempo prima. Il
Governo è molto più efficiente di così. Per questo controllo
ancora alla finestra. Se li vedessi, non so se riuscirei a continuare
con il mio racconto. Non li lascerò semplicemente entrare nella mia
proprietà mentre io me ne sto seduta qui a parlare con– con una
diavoleria mezza scassata, non li lascerò prendere anche la mia
vita, dopo tutto quello che mi hanno tirato via, dopo tutto– il mio
distretto– Lei–
Ma
Lei vuole che io salvi questa storia, la nostra storia.
Lo sto facendo anche per lei, perché sono assolutamente certa che
lei avrebbe fatto lo stesso al posto mio. Quando questa registrazione
sarà terminata non sarà importante che io sia viva o morta.
L'importante è che questo ricordo rimanga
vivo.
Lei
è ancora vivissima nella mia mente. Riesco a vederla ridere, a
vedere le labbra sottili che prima si allungano sul viso e poi si
schiudono, riesco ad immaginarmi mentre mi allungo per baciarle,
riesco a sentire il battito del mio cuore quando lei, dopo un mio
minimo ripensamento, si allunga e mi bacia per prima.
Il
nostro primo bacio è andato così. C'era molta più confusione –
siamo stipate in una navicella satura di profughi che il mio plotone
ha appena portato in salvo, io sono completamente impolverata e lei
ha il naso sanguinante e trema da morire, e io le assicuro le braccia
attorno alla vita e lei mi osserva come se mi avesse notata solo in
quel momento, e un entusiasmo nervoso la fa scoppiare in una risatina
isterica, e mi sussurra: « Anche oggi quei coglioni non sono
riusciti a centrarmi, hai visto? », e io le vorrei urlare di stare
zitta e di abbracciarmi e basta perché sono talmente
felice che lei sia ancora viva, la credevo sotto due metri di macerie
e poi tutto si riduce ad un niente.
Perché
ci stiamo baciando – e tutti sono troppo sconvolti per notare due
donne che si aggrappano l'una all'altra come se ne andasse della loro
stessa vita, e due donne che si baciano sono troppo estatiche per
accorgersi di quelli che stanno loro attorno. Avevo trovato la mia
tranquillità in un tremulo bacio che sapeva di sangue e di
calcinacci.
Siamo
scappate la sera stessa.
Non
se ne poteva più di tutto quell'andirivieni. Io non ne potevo più.
Lei sarebbe stata contenta di morire sbalzata in aria da una bomba
sonica mentre cercava di tirare fuori dalle macerie un mutilato, ma
io non l'avrei sopportato.
Mi
aveva detto di conoscere un distretto poco frequentato, dove avremmo
potuto ricominciare tutto da zero, creare una famiglia –
e quando ho sentito quella parola per la prima volta credo di aver
perso per un attimo la presa sul volante. Una famiglia.
Da quanto non ne avevo una? Reclutata nelle Forze della Galassia
quando avevo appena otto anni, cresciuta con l'idea che quella fosse
l'unica famiglia che avrei mai potuto avere nella mia vita. E poi la
famiglia ha cominciato
a sganciare missili sui pianeti vicini e io ho compiuto quella che
ancora oggi non so se sia la mia più grande vigliaccata o un atto di
rivoluzione. Sono scappata.
E
sono scappata anche quella volta, e scappo sempre, alla ricerca di
qualche posto in cui non debba guardarmi le spalle, tenere un occhio
aperto, essere terrorizzata di vivere come voglio davvero vivere.
Quella
stessa sera abbiamo dormito nella navicella rubata, strette una
contro l'altra, con entrambi gli occhi chiusi e le mani intrecciate,
e la parola famiglia che
fluttuava, pesante, nel silenzio attorno a noi.
Due
anni. Due anni di tremenda felicità, così abbagliante che faccio
ancora fatica a riportarla alla mente. Ci sentivamo libere,
invincibili, noi
stesse. Litigavamo di
continuo ed era stupendo, perché la sera, nonostante tutti i crucci,
dovevamo comunque stenderci vicinissime per conservare un po' di quel
calore che ci serviva. La rimproveravo quando tornava a casa con dei
semi di fiori invece che con il notiziario del giorno, ma poi andavo
ad innaffiare ugualmente i germogli arancioni che seppelliva con
commovente attenzione nella brulla terra di fronte casa. E chiamavo
le incrostazioni del soffitto famiglia,
e così pure gli insettucci argentati sotto i tappeti e i black-out
improvvisi nel cuore della notte per colpa di un attacco aereo. Li
chiamavo famiglia perché
convivevo con loro, li odiavo ma poi imparavo a capirli, a
conoscerli. E, davvero, non serviva nient'altro per rendermi felice.
Una casa sgangherata e Lei. E magari, nei giorni migliori, la
frittata di poochun.
F-A-M-I-G-L-I-A.
Ciò
che questa stupenda parola implicava già dall'inizio, quando avevo
cominciato ad usarla senza veramente pensarci troppo, è che la
famiglia diventa parte di te. Quando perdi qualcosa, è come
se perdessi una parte del tuo corpo.
Lei
era la mia gamba. La mia mano. I miei occhi. Ho smesso di camminare,
toccare, vedere, dopo che l'ultimo attacco aereo le è piombato
dritto in testa. I coglioni sono riusciti a centrarla, alla fine. E
non solo l'hanno centrata, ma stanno venendo a fare pulizia di tutto
ciò che si trova nel raggio di qualche chilometro dall'ultimo
bombardamento. Potrebbero buttare giù un missile e farmi esplodere
prima che io me ne possa rendere conto. E con me, questo ricordo.
Potrebbero, ma non glielo lascerò fare.
Non
sono riuscita a dire tutto ciò che avevo programmato, ma non ce
l'avrei fatta comunque. Come si riassume una vita in una manciata di
minuti? E in fondo non è quella che veramente conta. Quel che conta
è il mio atto di scappare. La scintilla. La mano alzata. L'individuo
che non si adegua. Questo è quello per cui voglio venire ricordata.
Siamo tutti meteore in un cielo di pianeti millenari – cerca solo
di essere luminosa abbastanza nel corso della tua breve vita. Anche
luminosa appena per illuminare la via di una sola persona. Trova la
tua tranquillità, e vivila. Trova la tua famiglia.
Arrivederci,
chiunque tu sia. Vedi di rendermi fiera di te.
Anno
2227, Pianeta A'asha, distretto XXXVI, Amara––
Registrazione
interrotta.