Beata innocenza
Stefano Paparozzi
«Ciao! Come ti
chiami?» gli chiede la ragazza all’ingresso del Museo prendendogli
il biglietto di mano.
«Ben» le risponde
mio figlio.
«E quanti anni
hai?» Passa il biglietto nel lettore.
«Quattro-quasi-cinque»
dice lui tutto insieme, mostrando anche una confusione di dita
oscillanti fra i due numeri.
«E oggi sei venuto
al museo coi tuoi papà, eh?» fa ridandogli il biglietto.
«Oh, no»
intervengo io, indicando Federico al mio fianco. «Lui è mio
fratello.»
Lei si scusa
sorridendo e con un inchino e un cenno del braccio ci invita ad
entrare. Beata innocenza.
***
C’è
subito una grande sala, interamente rossa. Di fronte a noi, sotto la
superficie di metallovetro della parete, brillano le ampie, candide
lettere; fluiscono i testi, si susseguono le foto e i video. Ben mi
chiede se ha letto bene quel che c’è scritto in alto, dove i
caratteri diventano alti quasi quanto lui. «Questa stanza» gli
spiego «ricorda quando i Paesi Bassi permisero alle coppie dello
stesso sesso di sposarsi, quarantacinque anni fa. Vedi lì» aggiungo
indicando il mastodontico titolo che occupa mezza parete, «c’è
scritto Alle origini dell’uguaglianza.
E questi nelle foto sono proprio i primi sposi olandesi.»
Ce li guardiamo
tutti, questi ritratti privati che l’evento storico ha reso loro
malgrado pubblici. Io, Federico e Ben passiamo in rassegna questi
volti felici, i fiori, gli scambi di anelli; facciamo scorrere le
immagini, in un certo senso ci impossessiamo degli album altrui, ma
più in cerca del simbolo che della vita privata.
Finito il
campionario olandese, proseguiamo.
***
La
sala seguente è tutta arancione, e i visitatori si fanno più
silenziosi. Anche le immagini non potrebbero essere più diverse da
quelle di prima: striscioni, simboli di inizio Novecento, esponenti
di qualsiasi religione; e le didascalie che riportano i discorsi,
frammenti di incomprensioni e pregiudizi. C’è un prete con un dito
alzato che arringa la folla di fedeli, c’è un vecchio con un
cartello che ferisce come un colpo di pistola, c’è un imam dal
volto severo, ministri in giacca e cravatta col sorriso pronto per le
telecamere e la lingua pronta per la storia. Federico scuote la
testa.
Fra le immagini
dell’odio, le nostre chiacchiere tacciono e si sentono appena i
nostri sospiri. C’è tutta un’altra aria, qui, persino Ben se ne
accorge; mi chiede cosa succede.
«L’opposizione
politica e religiosa» gli
rispondo citando il titolo della sala. «Sono le proteste di
certi… gruppi, di certe persone». Lui rimane in silenzio,
perplesso. Beata innocenza.
***
La
stanza successiva è gialla, e Federico mi indica che oltre la porta
successiva si vede già il verde: a quanto pare le sale sono sei e
hanno i colori della vecchia bandiera.
Qui basta passare
la mano sulle pareti per far apparire uno ad uno tutti gli stati, e
con loro le date storiche dal 2001 al 2010, ’15, ’20. «Vedi»
dico a Ben indicando il nuovo titolo splendente, «lì c’è scritto
Il matrimonio si espande in Europa e nel mondo.»
Ma lui non mi ascolta: adora le mappe e saltella entusiasta
come un grillo da una cartina all’altra, inspiegabilmente ma
piacevolmente fornite di ogni dettaglio fisico e politico – i
fiumi, i laghi, i confini delle regioni interne, i monti, le città.
«Noi dove siamo?»
mi chiede.
«Noi non ci siamo,
questo è il resto del mondo.» Ci rimane male, lo tranquillizzo:
«Sicuramente avremo una stanza a parte, dopo. Però guarda» gli
dico indicandogli la Francia: «qui in basso si vede un po’
d’Italia. Noi siamo qui, proprio al limite» aggiungo cercando di
indicare Roma, al bordo estremo.
Non è
particolarmente soddisfatto del mio tentativo di geolocalizzazione
improvvisata.
***
Continuiamo
il cammino nell’iride, e sulla parete verde davanti a noi troviamo
l’ennesima fluttuante scritta bianca: Le
famiglie e le adozioni.
Tutt’intorno,
sulle pareti, si inseguono neonati, adolescenti, donne incinte e
ritratti di gruppo. Ci sono intere famiglie ritratte dall’inizio
alla maturità: una coppia di donne che si incontra, una delle due
inizia una gravidanza, poi ne nascono questi due bei gemellini e li
vediamo crescere fino alla terza media; due uomini e una terza donna
che porta in grembo per loro un bambino, che nell’ultima immagine
della serie ci guarda sorridente dopo dieci anni; altri due uomini,
che uno dopo l’altro hanno adottato, negli ultimi vent’anni,
cinque fra bambini e bambine di tutte i colori e di tutte le
provenienze. Stanno tutti così bene, sono tutti così sorridenti.
Ammicco
a Federico, cercando di capire a che punto della discussione è con
Giorgio; gli indico pure Ben, a ricordargli quante volte l’ho usato
come scusa chiedendo per mio figlio un cuginetto. Fa spallucce, mio
fratello, rotea gli occhi come se non capisse. Beata innocenza.
***
Nella
stanza blu ci sono altre cartine, ma il silenzio è ancora più
opprimente di quello della sala arancione: le mappe mostrano i posti
in cui non avrei un cognato e mio fratello potrebbe essere in carcere
– o peggio.
Quando Ben mi
chiede che paesi sono, mi limito a dirgli il nome della sala: «I
luoghi dell’odio». Potrei
dirgli che sono luoghi lontani, che non sono immagini di casa
nostra, familiari, che non c’è niente da temere. Ma la distanza
non può scacciare il pensiero; è una distanza “soltanto”
fisica, non temporale: questo non è il passato, è il presente.
Presente: per definizione, è
qui. Una lapidazione come quelle che mi raccontano queste
didascalie probabilmente sta accadendo proprio in quest’istante, da
qualche parte. Non ha senso rifugiarsi nel conforto di una lontananza
puramente geografica.
«Questi sono
cattivi come quelli dell’altra stanza, vero?» indovina Ben, che
davanti a queste mappe si diverte di meno.
«Anche un po’ di
più, Ben. Anche un po’ di più.»
***
Al
termine dell’arcobaleno, nella sala viola, perfino
Ben riesce a riconoscere al volo la gigantografia della cartina
italiana: «È la stanza nostra? È la stanza nostra?» saltella
felice.
«Sai
qui che c’è scritto?» gli chiedo tentando di fermarlo mentre
inizia a indicare tutte le città dei nostri parenti da nord a sud.
«C’è scritto 25°
anniversario del matrimonio egualitario in Italia.
Sai che vuol dire?» Scuote la testa. «Vuol dire che sono
venticinque anni che qui possono sposarsi due uomini o due donne.»
Non lo so mica, se sta capendo.
Davanti
a noi, intanto, le
immagini non sono poi troppo diverse da quelle della prima stanza, se
non per i luoghi e la qualità delle foto: due ragazzi in gessato si
stringono la mano davanti al Colosseo, due ragazze in abito da sposa
si baciano sotto il campanile di San Marco…
Un
sospiro alle mie spalle. Mi giro: Federico se n'è stato zitto tutto
il tempo mentre facevo finta di non vederne gli occhi lucidi, ma ora
deve tirare su col naso quel che gli si accumulato e non lascia
uscire; prende un fazzoletto e mi fa «Scusa.» E di che?
***
Mia moglie e mio
cognato arriveranno fra una mezz’oretta; li aspettiamo sulle
poltrone, al termine del percorso. La parete di fondo è tutta una
finestra sulla città: un simbolo di apertura, di futuro, credo.
Guardiamo fuori, verso il tramonto che dall’altra parte del vetro
fonde per qualche minuto le pareti col cielo.
Malgrado
il panorama, Ben passa dal disinteresse al broncio. «Tutto qui?» mi
chiede. «Non ci sono gli animali?»
«Non
tutti i musei riguardano gli animali. Questo è un museo sul
matrimonio e su come è stato possibile che tuo zio Federico potesse
sposare tuo zio Giorgio, come io ho sposato la mamma.»
«E
c'era bisogno di farci un museo?»
Mi
viene il dubbio che forse dovevo prepararlo meglio prima di venire
qui. «Certo.»
«E
perché?»
«Perché
un tempo non avrebbero potuto sposarsi.»
«E
perché?»
«Non
sei stato molto attento, prima, eh?»
Abbassa
gli occhi, colpevole.
«Per
farla breve: non avrebbero potuto perché le persone della seconda
stanza dicevano che gli uomini possono sposare solo le donne e le
donne solo gli uomini.»
Rialza
lo sguardo su di me, poi su Federico, poi fuori dalla finestra. Dopo
qualche secondo si volta verso di noi, e scuotendo la testa e
aggrottando la fronte commenta: «Che cavolata.»
Federico ride e gli
lascia una carezza. «Beata innocenza» dice. A se stesso, a mio
figlio, a me.
Davanti a noi il
sole tramonta, e scendendo all’orizzonte allunga l’ombra innocua
della cupola di San Pietro.