Fatihim (il mio Fatih), di E. V. de Seniga (pseudonimo di Enrico Venturelli)
Documento 20.12AA45 –
1.11AA24. PS. Fatihim [NOTA 1]
Mi chiamo Alp, per la
precisione sono AA24. Tale sigla nel tempo in cui scrivo indica una
sola figura istituzionale a tutti nota, non è certo però che lo
sarà anche in futuro. Meglio dunque esplicitare: io sono il
ventiquattresimo archivista della famiglia Alp, insediato in tale
carica dagli anziani al momento del ritiro del mio predecessore. Gli
Alp sono turchi, una tra le poche famiglie in grado di fregiarsi del
titolo di gente autoctona, stabile a Istanbul addirittura da
prima che la città diventasse capitale della Federazione Europea. Da
allora è passato così tanto tempo che i cittadini di cultura
modesta faticano ad immaginare la nostra federazione con altra
capitale e reagiscono increduli all’idea che un tempo il centro
politico fosse Berlino; del resto, trovano pure inconcepibile che si
potesse ricorrere ad altra lingua diversa dal turco per la cultura e
l’amministrazione. Gli Alp, in questo caso gli anziani che hanno
sempre retto la famiglia, non vollero mai disfarsi dei documenti
accumulati nei secoli. E mentre gli altri, privati e istituzioni
pubbliche, trasferivano tutto su supporto digitale, disgraziatamente
permettendo la distruzione degli originali, gli Alp in controtendenza
incaricarono un archivista (AA1) di mettere ordine nel loro
patrimonio. Poi si verificò quell’evento catastrofico, a tutti
noto come il Collasso, che causò la completa distruzione di quanto
era stato digitalizzato fino a quel momento. La conseguenza fu che
l’Archivio Alp divenne depositario pressoché unico del sapere
precedente al collasso e la famiglia acquisì di colpo una posizione
di preminenza mai prima goduta. Essere gli unici depositari del
passato rese gli Alp molto potenti e gli anziani non se ne
dispiacquero certo, però presto si resero conto di avere fra le mani
un potere da manipolare con circospezione. Neppure per un momento
pensarono di donare i propri documenti alla federazione, decisero
invece che l’archivio e il suo direttore si sarebbero dovuti
attenere ad un bassissimo profilo, esercitando un controllo sulle
conoscenze del passato appena percettibile e rigorosamente
equidistante dai numerosi interessi di una società complessa. Va
detto che, a distanza di tanto tempo, non è ben chiaro quali
vantaggi pensassero di riservarsi gli anziani. In ogni caso, grazie
alla loro accorta politica, l’Archivio Alp si trasformò in un
autorevole istituto fedele alla federazione, rigorosamente leale
verso i pubblici bisogni, ma sempre di gestione privata.
Undici
anni fa, quando seppi che sarei diventato AA24, fui colto da un misto
di ansia e di compiacimento. Soddisfazione per essere stato scelto
fra molti e ansia per i radicali cambiamenti che mi attendevano.
Forse non era così ai tempi dei primi archivisti, ma ora, nel
momento in cui si assume tale carica (nessuno suppone che si possa
rifiutare), le regole e le consuetudini alle quali bisogna sottoporsi
sono tali e tante che ogni aspetto della precedente esistenza viene
travolto. Molte libertà vanno perdute per sempre, in compenso si
accede a un tenore di vita di sfrontata agiatezza. Prima avevo
trascorso quasi tutta la mia vita a mezz’aria, sono infatti un
mezzaria sotto ogni aspetto: per nascita, formazione e
mentalità. A terra ero sceso solo alcune volte, in vacanza e sempre
per brevi periodi. Diventando AA24, mi veniva concesso l’onore di
risiedere a terra, negli appartamenti da secoli riservati all’AA,
presso la sede dell’archivio e nel centro della capitale. Per la
verità un onore un po’ greve, visto che mi impegna a lasciare la
città solo in circostanze eccezionali e comunque rimanendo sempre a
terra, senza mai salire a mezz’aria. Avrei cambiato casa in maniera
definitiva e non sarei mai più tornato nei luoghi dove avevo sempre
vissuto, l’ansia era dunque giustificata.
Ai
tempi di AA1 il processo di trasferimento della popolazione a
mezz’aria era ancora agli inizi. Per non consumare altra terra la
federazione aveva da poco avviato il progetto, allora avveniristico,
di insediare le nuove generazioni in agglomerati abitativi fluttuanti
sopra le maggiori città. Sufficientemente distanti da essere a
fatica visibili dalla terra, ma nemmeno così lontani da uscire
dall’atmosfera del pianeta. Da ciò ebbe origine la denominazione
popolare, che poi si impose, di alloggi a mezz’aria, e in
seguito i cittadini là residenti divennero i mezzaria.
Inizialmente i nuovi nuclei famigliari furono insediati con l’intento
di indurre le persone a trascorrere in alto il tempo libero dal
lavoro, ma presto gli insediamenti crebbero e si affacciò il
problema dei quotidiani trasferimenti. Gli intasamenti presso le
stazioni divennero un problema talmente serio che si decise di
trasferire pure le scuole, gli ospedali e a seguire tutte le
istituzioni necessarie per la vita quotidiana. Da ultimo salirono in
alto anche gli insediamenti produttivi e nel giro di poche
generazioni non ci fu più ragione di scendere se non per svago. A
terra rimase sempre meno e l’orientamento del governo fu quello di
cancellare tutte le infrastutture diventate inutili. Nelle città si
cessò di costruire e furono istituite commissioni per decidere del
valore degli edifici e valutare l’opportunità della demolizione.
Ora delle metropoli del passato si conservano solo i centri storici,
e gli agglomerati urbani ancora visibili dagli insediamenti a
mezz’aria non sono più di venti. Il dibattito su quanto e dove
demolire, all’inizio questione solo per esperti, divenne
inaspettatamente appassionante per tutta la popolazione. Da quelle
antiche polemiche su strade e palazzi ebbero origine i due partiti
politici che ancora oggi si alternano al governo. Tali partiti hanno
assunto nel tempo le denominazioni, all’inizio popolari, di Verdi e
Azzurri: semplici metafore per esprimere due distinti stati d’animo
a proposito del rapporto tra terra e uomini. Gli Azzurri sono
completamente acclimatati a mezz’aria, apprezzano la vista della
terra dall’alto, non desiderano scendervi e la vorrebbero sanata
d’ogni segno umano. I Verdi invece, pure cresciuti a mezz’aria,
sembrano provare nostalgia per la terra, desiderano scendervi spesso
e per soddisfare questo loro bisogno esistono a terra appositi
insediamenti turistici. Gli azzurri demolirebbero tutto, i verdi si
oppongono, per fortuna da più di un ventennio gli azzurri sono
all’opposizione.
Mi
accorgo di aver speso quasi un quarto del documento standard in
nozioni di carattere generale e non ho ancora nominato Fatih, cui
questo testo è dedicato. Fatih è il mio compagno, quando ci siamo
incontrati non ero ancora AA, lo sono diventato di lì a poco e ho
pure temuto che il nostro incontro si sciogliesse. Nel mio tempo il
termine incontrarsi ha assunto una connotazione talmente
specifica da aver sottratto la parola agli usi precedenti. Per
comprendere appieno il significato moderno bisogna tornare agli
alloggi a mezz’aria e ad un altro radicale cambiamento sociale
indotto da essi. All’inizio lo spazio a disposizione per ogni
individuo là in alto era modesto, per tale ragione gli psicologi
avevano proposto al governo di esortare i mezzaria a nuove regole di
movimento. Si spiegò che in spazi ristretti i contatti casuali si
moltiplicano e sono fonte di crescente malessere, vanno quindi in
ogni modo evitati optando per movimenti più lenti che danno il tempo
sufficiente di calcolare e scansare le traiettorie altrui. Conosco
decine di direttive pubbliche rimaste del tutto disattese, ma quella
a proposito dei contatti casuali fu accolta addirittura con
entusiasmo. A tal punto che ora, a distanza di secoli, si può ancora
tollerare un contatto involontario tra bambini un po’ maldestri, ma
lo si considera a dir poco disgustoso tra individui adulti. Nel mio
tempo non ci si tocca mai per caso e non ci si incontra se non
per scelta e mutuo desiderio.
La
sera che Fatih ha desiderato incontrarmi ero da poco arrivato ad un
ricevimento Alp e stavo ancora osservando incuriosito i presenti
quando ho avvertito un distinto pizzicore all’altezza delle
sopracciglia. Il dispositivo ev, di comunicazione a distanza,
che tutti possediamo innestato sotto pelle dall’età di sei anni
(gli azzurri propongono di installarlo alla nascita), permette anche
comunicazioni non verbali, più adatte quando il contenuto del
messaggio appare troppo imbarazzante per essere espresso a parole. Il
pizzicore in quel punto del viso è da tempo il segnale che qualcuno
in prossimità si propone per un incontro. Non capita spesso
di percepire quel pizzicore: un incontro può turbare a tal punto che
un normale adulto si arrischia nell’impresa poche volte nella vita.
Se si riceve quel segnale, superata la sorpresa, in genere si volge
lo sguardo in cerca del mittente. Quando gli sguardi si incrociano,
solo un reciproco cenno di assenso autorizza l’avvicinamento. Se
poi chi ha ricevuto la proposta gradisce la prospettiva dell’incontro
non deve fare altro che tendere la mano con il palmo rivolto verso
l’alto e lasciare che l’altro, solitamente con l’indice, ne
sfiori per un attimo la superficie. Non si creda che dopo il primo
tocco seguano subito altri contatti. Anzi, i due individui tornano ad
allontanarsi, ma a una distanza inferiore a quella che di regola si
mantiene con un estraneo. A questo punto si torna alla comunicazione
verbale e se l’incontro merita di essere protratto nel tempo, gli
argomenti di conversazione diventeranno per gradi sempre più intimi.
L’incontro
con Fatih è stato memorabile fin dall’inizio, da allora mai una
volta ho desiderato di ripristinare con lui la distanza standard e il
nostro incontro dura ormai da dodici anni. Fatih è poco più giovane
di me, professionalmente è un guardia, politicamente un
verde. I guardia sono funzionari che, riuniti in collegio,
sorvegliano la terra su mandato della federazione, prevalentemente
dalle loro postazioni a mezz’aria. A loro spetta il monitoraggio
costante dei parametri che permettono di valutare lo stato di salute
del pianeta. Oggi nel collegio dei guardia prevalgono i verdi. Se la
maggioranza fosse azzurra i guardia si occuperebbero di controllare
solo la qualità delle acque, la varietà delle specie viventi, i
mutamenti atmosferici. Ma per fortuna sono i verdi a dettare le linee
guida e quindi il collegio mira a catalogare e sorvegliare pure le
vestigia umane, ovviamente quelle poche che si sono salvate dalle
demolizioni del passato. I verdi moderati difendono gli antichi
palazzi, i musei, le moschee, ne celebrano la bellezza e chiedono la
conservazione pure di giardini, oasi, porti e canali, ritenendo che
anche gli ambienti naturali modellati dall’uomo meritano di
sopravvivere alla rinaturalizzazione. Fatih appartiene però
al gruppo dei verdi radicali, che rimpiangono la scomparsa di un
ponte, di una stazione o anche di un oleodotto. Fatih, come i suoi
correligionari, si batte perché nel presente non si elimini più
nemmeno un calcinaccio dal fondo di un bosco e gioiscono se per caso
durante un ripristino boschivo riemerge la base di un pilone
autostradale. D’altra parte, io ai suoi occhi non sono meno
strambo: prima di diventare AA24 ero un giovane professore di storia
umana specializzato nei secoli precedenti al collasso, così
concentrato nello studio dei documenti d’archivio da aver distolto
completamente l’attenzione dal luogo in cui i fatti si
verificarono. Prima di incontrare Fatih la mia mente non era nemmeno
sfiorata da interessi archeologici, mi stava bene guardare la terra
dall’alto e nessuno mi avrebbe persuaso della necessità di
scendere per una campagna di scavo. E’ solo merito di Fatih se ho
sviluppato qualche moderato interesse per i reperti del passato. Ciò
nonostante, anche dopo molti anni di residenza a terra, non riesco
ancora a commuovermi, come capita a Fatih, quando ricompare un
bullone antico oppure un frammento di autentica ghisa
protoindustriale.
Il
nostro incontro si protraeva da circa un anno, quando gli anziani Alp
mi scelsero come nuovo archivista. Fino ad allora non era stato
difficile incrociare i nostri percorsi quotidiani, dato che
lavoravamo in luoghi diversi ma entrambi sopra la capitale. Spostarsi
a mezz’aria è facile e confortevole, era così possibile
moltiplicare i nostri incontri senza alcuna difficoltà. Ma una volta
diventato AA, gli insediamenti a mezz’aria mi sarebbero stati
preclusi. Temevo che Fatih non avrebbe accettato di scendere spesso a
terra e col tempo avrebbe magari considerato l’opportunità di
sciogliere il nostro incontro.
Invece
tutto andò per il meglio (sono un Alp fortunato). Il caso ha infatti
voluto che Fatih fosse un verde scatenato, fosse stato anche solo un
verde moderato, o peggio ancora un azzurro, di certo non avrebbe
amato la prospettiva di scendere a terra con frequenza. Dopotutto
richiede tempo e provoca malesseri che a volte perdurano per ore.
Fatih reagì invece elettrizzato alla prospettiva di tanti
cambiamenti. In quanto poi congiunto di un AA, avrebbe acquisito
tutti i benefici connessi alla mia carica e avrebbe goduto del mio
stesso tenore di vita. Ciò gli avrebbe permesso di scendere a terra
anche ogni giorno senza preoccuparsi del costo. Volendo, avrebbe
potuto anche lasciare il lavoro ma di questo non si parlò mai. Da
anni Fatih scende con frequenza settimanale, così spesso da essersi
abituato al viaggio e da non patirne più gli effetti. Del resto,
esaudendo un suo speciale desiderio, ho allestito per lui un ambiente
(lui lo chiama cucina) che a mezz’aria sarebbe stato
impensabile, e alla fine ho pure ceduto alla più strampalata fra le
sue richieste: ho accettato di mangiare in sua presenza!
So
benissimo, grazie ai miei studi, che il consumo dei pasti è stato
per millenni un evento sociale. Per quanto possa apparire
raccapricciante i nostri predecessori masticavano, senza turbamento
alcuno, uno di fronte all’altro. La mutazione antropologica,
sostengono gli studiosi, trae di nuovo origine dallo spostamento a
mezz’aria; gli uomini già a terra espletavano alcune funzioni
fisiologiche sottraendosi alla vista dei propri simili, ma fu solo a
mezz’aria che masticazione e deglutizione divennero pratiche che
richiedono una assoluta intimità. Fatih è un appassionato lettore
di qualsiasi libro che tratti, più o meno seriamente, di costumi e
comportamenti delle società umane anteriori al passaggio a
mezz’aria. E’ attirato da tutto ciò che allora era in uso e
vagheggia di tornare alla naturalezza dei modi del passato.
Non dubita della loro innata bontà ed è invece giudice severo delle
attuali abitudini. Circa un decennio fa una monografia dedicata alle
svariate maniere di cibarsi riscosse un notevole successo. Il testo
non solo descriveva arcaici regimi alimentari ma rimarcava quanto
radicato fosse l’uso di mangiare in comune e, pure ammettendo gli
indubbi vantaggi del nutrirsi appartato, avanzava l’ipotesi che
qualcosa di importante fosse andato perduto al momento della rinuncia
ai pasti collettivi. Niente di scandaloso, se non fosse che
quell’ardita ipotesi, tutta da verificare, divenne certezza
incrollabile nella mente di Fatih. Egli infatti decise, per il suo e
purtroppo anche per il mio bene, che era giunto il momento di tornare
alla preparazione diretta dei pasti da consumare poi insieme. Non
solo avrebbe raccolto e anche coltivato (nel mio giardino) i prodotti
necessari; non solo intendeva prepararli in un spazio adeguato (è
così che nel mio appartamento è comparsa la cucina); ma pure
decise che avremmo mangiato sedendoci uno di fronte all’altro,
esponendo alla vista dell’altro mandibole e denti in movimento. Per
mesi sostenni che mi sarebbe stato impossibile, che mi stava
chiedendo troppo. Prima rifiutai, poi tentai di procrastinare (dissi
che non poteva chiedermi di assumere cibi da lui preparati finché
non si fosse davvero impratichito), infine accettai di fissare una
data ma a molte condizioni: avrei assunto solo vegetali, preparati in
maniera semplicissima (doveva dichiarare tutti gli ingredienti),
serviti a piccoli pezzi e infine li avrei portati alla bocca con
bastoncini di legno, dato che rifiutavo di usare gli strumenti
metallici raccomandati da Fatih. Accettò le condizioni, fissammo la
data e infine giunse il giorno della prova. Ora ricordo quasi con
tenerezza quell’evento, da allora abbiamo mangiato insieme così
tante volte che non provo quasi più disturbo. Ma ricordo pure bene
quanto fossi contrariato con me stesso per avere acconsentito. Fino a
quel momento nessuno mi aveva visto mangiare, i pasti li avevo sempre
scrupolosamente consumati negli appositi cubicoli dopo essermi
assicurato di avere ben chiuso la porta, e ora Fatih voleva
osservarmi mentre masticavo!
Avevo
progettato di introdurre il cibo in bocca solo nei momenti in cui per
qualche ragione Fatih non mi stesse guardando, avrei atteso per ogni
boccone che si distraesse, avrei provato a distrarlo. E soprattutto
avrei ingoiato tutto senza masticare, muovere la mascella o, peggio
ancora, mostrare i denti. Ma il mio piano fallì perché Fatih,
presentatomi il piatto, si sedette di fronte a me a braccia
incrociate, determinato a non togliermi lo sguardo di dosso neppure
per un secondo. La pietanza prescelta per la prima volta fu in
effetti molto semplice, l’elenco degli ingredienti denunciava assai
poche sostanze: broccolo, acqua, sale, tracce trascurabili di nitrati
e silicati (in tal modo Fatih ammetteva che la pulitura casalinga non
poteva essere perfetta). Mi presentò un grande piatto bianco su cui
erano depositati dei ciuffetti verdi, inteneriti e insaporiti, a dire
di Fatih, da un semplice passaggio in acqua bollente e salata.
Saggiandoli con i bastoncini verificai che erano teneri, ottima cosa,
pensai, non avrei dovuto masticare a lungo. Però non erano così
piccoli da poterli ingoiare (Fatih aveva previsto la mia strategia).
Sicché, anche se per poco, dovevo masticare, sminuzzare il boccone e
lasciare che i pezzi poggiassero per un tempo adeguato tra lingua e
palato; il mio determinato istruttore aveva infatti deciso che era
impensabile che continuassi a vivere senza conoscere il piacere dei
sapori. Nel corso degli anni ho anche imparato ad apprezzarli, ma
solo dopo aver resistito per molti mesi ad una predominante
sensazione di disagio e sregolatezza. Ora in cucina passiamo molto
tempo, chiacchierando e discutendo mentre lui affetta, risciacqua,
condisce e soffrigge. Io sto a guardare e sono sempre più sereno,
visto che Fatih ha smesso i panni dell’istruttore e lascia che
mastichi o inghiotta quando mi pare. Oggi riconosco che i sapori sono
spesso sorprendenti, a volte addirittura eccitanti e devo pure
ammettere che ogni tanto sbircio le mandibole in movimento di Fatih.
Stavo
appena abituandomi ai piaceri di una quieta convivenza, quando il mio
compagno, esattamente sei mesi fa, ha deciso di affliggermi con una
nuova richiesta, se possibile ancora più strampalata di quella del
mangiare assieme. Nel corso di un pasto davvero ben riuscito, Fatih
se n’è infatti uscito dicendo che gli sembrava un peccato essere
solo in due a condividere tante bontà e che sarebbe stato bello
adottare dei figli per insegnare loro a mangiare naturalmente.
Fatih mi ha quindi raccontato di aver letto un articolo sul piacere
che si conseguiva in passato crescendo un minore. Così abbiamo
cominciato a discutere, dato che io non riesco ad immaginare quale
gratificazione ci possa essere nel sobbarcarsi la fatica di educare
dei bambini, quando per questo esistono appositi istituti (attraverso
i quali tutti siamo passati) perfettamente in grado di fornire
un’ottima formazione omogenea. Ma Fatih non si lascia convincere
facilmente e ormai penso un po’ sconsolato che, tempo altri sei
mesi, saremo in quattro a mangiare al tavolo in cucina.
A dir
la verità pure io stavo pensando ad una adozione, ma di quelle
comuni nel presente e soprattutto tra i membri della famiglia Alp. A
nessuno di noi verrebbe mai in mente di adottare un bambino. Gli Alp
adottano adulti che, grazie all’adozione, diventano membri a pieno
titolo del clan e ne acquisiscono tutti i benefici connessi. Un Alp
adotta chi ama, quindi per ragioni affettive, oppure chi ammira per
ragioni scientifiche o artistiche, e spesso diventa Alp anche chi è
stato a lungo un fedele collaboratore o scrupoloso dipendente. Col
tempo è invalsa la consuetudine che un Alp rispettabile non possa
esimersi da adottare nel corso della sua esistenza almeno un
individuo meritevole. Io, chiaramente, riflettevo da un pezzo sul
modo più delicato di comunicare a Fatih il mio desiderio di
adottarlo. Non mi risolvevo però all’azione, non riuscendo a
decidermi sul modo migliore per affrontare la questione. Avevo anche
pensato di offrire l’adozione ai genitori di Fatih, ma poi ho
pensato che mi stavo avventurando su un terreno pericoloso. In ogni
caso la sua inaudita proposta ha reso la mia banale e scontata, e so
già come andrà a finire: lui accetterà che lo adotti a patto che
io accetti di crescere insieme a lui un paio di bambini vocianti.
Nel
corso degli anni Fatih non si è solo preoccupato di rieducarmi,
come si esprime lui, al gusto e al pasto condiviso. Senza dubbio
quella è stata la maggiore delle sue battaglie ma certo non l’unica
da lui ingaggiata per indurmi a riattivare i sensi, un tempo, a suo
dire, largamente esercitati dall’umanità che viveva a terra. Un
giorno di ormai otto anni fa (mentre già mi stava assediando sul
versante del cibo), mi comunicò serissimo che bisognava tornassi
almeno ad apprendere i piaceri del tatto (se proprio non volevo
concedermi quelli del gusto), e non intendeva il normale contatto
consueto nel presente, ma il tatto nell’accezione in uso nei
secoli passati. Il contatto, come già si è visto, è un
insieme di sensazioni a cui due individui accedono durante un
incontro che può durare poche ore o più decenni. Il contatto
si sviluppa quando due persone stanno a distanza più o meno di un
braccio l’una dall’altra e nel frattempo parlano, sorridono o
anche ridono fissandosi negli occhi. A volte pure si sfiorano
fuggevolmente con la punta delle dita. Il contatto è fonte di grande
benessere per chi ha la fortuna di un incontro duraturo, se fuggevole
è già meno appagante, è invece penosa la vita di chi non ne gode
per nulla. Allora io ero già molto gratificato dalla qualità del
contatto con Fatih e non ero certo in cerca d’altro. Ma lui disse
che non bastava, disse che dovevamo passare al vero tatto.
Cominciò a pontificare infervorato citando a valanga esperti
indiscussi e solide ricerche. A suo dire, il tatto era una
esperienza irrinunciabile per i nostri avi e contemplava il contatto
diretto di varie parti del corpo di due individui in assenza dei
rispettivi indumenti. Per accedere al tatto, sentenziò Fatih, era
essenziale che ci togliessimo i manti e procedessimo a
toccarci, non solo con la punta delle dita. Se negassi d’aver
provato sconcerto mentirei, ma di certo non reagii inorridito come
quando mi disse che voleva guardarmi mentre mangiavo. Inoltre, mi
dissi, potevo acconsentire senza preoccupazione, tanto ci avrebbero
pensato i manti ad opporsi.
A
beneficio di chi in futuro mi leggerà, ricordo che ormai da molte
generazioni gli uomini non indossano indumenti tessuti come nel
lontano passato. Parecchi tra i miei colleghi in università
sostengono che pure i manti furono in origine una innovazione indotta
dal trasferimento a mezz’aria. Il nesso da loro individuato però
mi convince poco e se non posso certo negare che i manti sono stati
introdotti dopo l’affermazione degli insediamenti sospesi, nemmeno
trovo tra una tecnologia e l’altra un rapporto di causalità così
evidente come loro asseriscono. Di certo è stata una scoperta
straordinaria che ha rivoluzionato la vita umana.
A
scuola insegnano che all’inizio ci furono parecchi problemi di
adattamento tra uomini e manti, e anche se ora i manti si affezionano
sempre a chi li indossa, tuttavia ogni bambino deve essere affettuoso
soprattutto con il suo primo manto, perché il rigetto è
davvero una cosa seria. Ho letto che in passato gli uomini vivevano a
stretto contatto con gli animali, vi si affezionavano e poi
soffrivano al momento della loro morte. Tra l’uomo e certi animali
in particolare si sviluppava una speciale intesa che gratificava
entrambi. Potrei dire che il rapporto tra un mezzaria e il suo manto
ricorda molto quello che si instaurava tra un terrestre e il suo
cane. I mezzaria indossano il loro primo manto a sei anni e i bambini
vanno preparati all’evento in modo che tutto si svolga serenamente.
I manti sono delicati organismi complessi, nella sostanza sono
colonie di microrganismi, ad intensa vocazione sociale, che amano
ricoprire altri animali capaci di mantenere costante la loro
temperatura. Non sono però parassitari, attivano piuttosto una
relazione di natura simbiotica con l’essere che vanno a rivestire:
all’inizio, finché proliferano, beneficiano del calore
dell’organismo superiore, ma poi il manto, una volta cresciuto,
diventa un rivestimento isolante straordinariamente duttile. Per
ricorrere a una metafora, il manto si affeziona al corpo su cui è
attecchito e lo difende strenuamente dalle insidie dell’ambiente
esterno. Sollecitato dalle condizioni esterne, ispessisce o si
assottiglia, volta a volta impedendo o favorendo la diffusione del
calore. Rintuzza i colpi, lenisce i dolori, ma soprattutto, secondo
meccanismi che non conosco a fondo, mantiene l’epidermide in
perfetta salute.
Come
si può ben capire è essenziale essere in buoni rapporti con il
proprio manto. In passato i manti erano, diciamo così, primitivi e
spesso rigettavano, per ragioni non sempre chiare, l’umano che non
gradivano. Allora la situazione diventava seria perché nessun altro
manto accettava di avvolgere un individuo rifiutato. Ma la ricerca ha
fatto nel tempo grandi progressi, gli scienziati sono infatti
riusciti a selezionare manti sempre più sofisticati, dotati per così
dire di personalità. Ora sono a disposizione manti per ogni tipo di
bambino, anche per quelli più problematici; gli addetti all’infanzia
devono solo studiare con attenzione ogni piccolo in modo da scegliere
per lui il manto più adatto. Oggi ci sono manti dotati di tale
dedizione e senso del dovere da attecchire anche sul corpo dei
bambini più intrattabili. Nessuno, neppure il più disturbato,
rischia più di restare senza il conforto di un manto. I manti
prosperano per circa un decennio, poi cominciano a deperire e infine
muoiono. A quel punto si è costretti a passare da un indumento
all’altro; tale passaggio si compie in assoluta riservatezza, in
luoghi appartati e in penombra, protetti da intrusioni accidentali,
soprattutto di natura acustica. I manti acquistano col tempo un vero
e proprio carattere ed esprimono il loro disappunto con la persona
che rivestono se qualcosa non è di loro gradimento. A volte
sviluppano un trasporto così intenso verso chi li ospita da
diventare ipersensibili, verrebbe da dire permalosi, se non si
sentono adeguatamente apprezzati. Un improvviso intenso prurito, che
scompare del tutto dopo pochi minuti, è il tipico segnale a cui il
manto ricorre se si sente trascurato e scontento. Del resto, il manto
difficile è anche il più ricercato: c’è molto più gusto
ad averne uno sensibile e perspicace. Solo con tale tipo si consegue
quella profonda intesa che rende il manto capace di mutazione e
quindi disponibile ad assumere, su richiesta, tutte le fogge e i
colori essenziali per la vita in società. I manti evoluti sono pure
capaci di farsi trasparenti, si assottigliano a tal punto da
permettere una perfetta visione del corpo sottostante, una facoltà
molto apprezzata dalle coppie che vogliono approfondire il loro
incontro.
Quando
Fatih propose di sperimentare il tatto, non mirava certo a vedere il
mio corpo dato che da tempo l’aveva osservato sotto ogni
angolatura. Ciò che desiderava era toccare, con le sue mani, la mia
pelle senza il manto di mezzo. Ma convincere un manto a togliersi di
mezzo, anche solo per breve tempo, era davvero una impresa ardita.
Fatih indossava allora il suo quarto manto, l’aveva cambiato da
poco ed era (come il mio del resto) di tipo assai sofisticato e
sensibile. Sicché, pensai, non aveva alcuna possibilità di
convincerlo a staccarsi dal suo corpo neppure per pochi minuti (e ciò
valeva anche per il mio). Ero sicuro che non ci sarebbe riuscito, e
se i nostri manti si rifiutavano, mi dicevo, non ci sarebbe stata
alcuna esperienza del tatto. Ma Fatih riuscì a convincere
entrambi, li persuase che, se io e lui ci fossimo toccati, avremmo
accumulato molto benessere e, quando fossimo tornati ad indossarli,
anche loro ne avrebbero tratto vantaggio. Non si creda però che i
nostri manti si siano lasciati irretire facilmente, ci volle
parecchio impegno per convincerli.
Da
ciò che ho raccontato finora si potrebbe evincere che un manto
moderno sia dotato di capacità linguistiche e che si possa
intavolare con lui un vero e proprio dialogo. Non è così, i manti,
per ora almeno, non parlano né rispondono alle domande. Tuttavia,
come già si è visto, sono in grado di comunicare il loro malessere
e anche un umano dotato di minime capacità intellettive impara
nell’arco di un decennio a interpretare i segnali inviati dal
proprio manto. In sintesi, è piuttosto facile capire quando un manto
è scontento perché protesta; invece è più difficile distinguere
lo stato di soddisfazione da quello di indifferenza, dato che in
entrambi i casi il manto non emette alcun segnale. Fatih, quando si
applica ad un problema, è tenace e non molla facilmente. In quella
occasione prima lesse tutto quello che trovò sulla natura dei manti
moderni. Per comunicare con i nostri manti si ispirò alle tecniche
sviluppate dai ricercatori negli ultimi secoli. Apprese che per
trattare con un manto evoluto bisogna approntare un questionario, una
fitta serie di domande che permette di chiarire tutto ciò che gli è
sgradito facendo emergere per sottrazione ciò che apprezza e
approva. Una procedura macchinosa ma efficace.
Così
un giorno sottoponemmo i manti ad una raffica di domande e scoprimmo
(ma era prevedibile) che mentre il mio diffidava il suo mostrava
curiosità. Entrambi conoscevano da tempo le intenzioni di Fatih ma
fino a quel momento non se ne erano granché preoccupati, del resto
perché preoccuparsi di qualcosa di improbabile. La storia del
maggior beneficio a seguire l’avevano già sentita e poteva
interessarli, ma ovviamente prima bisognava che definissimo per bene
dove li avremmo deposti nel tempo in cui avremmo fatto a meno di
loro. Fatih aveva pensato a dei manichini morbidi e tiepidi, simili
per dimensioni ai nostri corpi. La proposta fu rifiutata con sdegno.
Invece, l’opzione di riserva incontrò inaspettatamente il loro
favore. Fatih aveva pensato, come ripiego, a delle vasche tiepide e
soffici in cui i manti potessero giacere distesi in attesa di
risistemarsi su di noi. Ottenuto l’assenso dei manti, Fatih passò
alcuni mesi del tutto assorto nella progettazione delle vasche e
quasi al termine di tale fatica ebbe un colpo di genio. Immaginò che
pure i manti potessero apprezzare il contatto reciproco e chiese loro
un parere a proposito di una vasca unica oppure di due comunicanti. I
manti scartarono l’ipotesi della vasca unica preferendo l’idea di
due scomparti separati da una parete permeabile. Fatih mi disse poi
che si era ispirato a un antico manufatto (ancora una volta) dei
tempi degli uomini a terra, una specie di supporto per il sonno per
due individui denominato letto matrimoniale, una sorta di
ampia pedana che in seguito realizzò pure per noi, la nostra però
priva di sponde perimetrali e paratia intermedia.
Pronta
la vasca per i manti, non restava che passare all’azione. Fatih
osservò che un ambiente ovattato e in penombra avrebbe avuto un
effetto calmante, secondo lui i manti incoraggiati da tale atmosfera
sarebbero scivolati via dai nostri corpi spontaneamente, sistemandosi
senza recalcitrare nei loro rispettivi contenitori. Io ero comunque
convinto che i manti avrebbero abbandonato i nostri controvoglia, ma
avevo torto. Come previsto da Fatih, i manti ci assecondarono senza
proteste. Bastò che ognuno di noi si sistemasse in piedi nello
scomparto del proprio manto, perché essi intendessero il nostro
desiderio e si staccassero facilmente fluendo placidi verso il basso.
Ora i manti ci lasciano anche più volte in un mese, e ciò che in
passato era impensabile ora risulta semplice e naturale. A quanto
sembra, pure i nostri manti amano toccarsi e a volte ho addirittura
la sensazione che non vedessero l’ora di staccarsi da noi. Fatih
sostiene che ci sia parziale rimescolamento ogni volta che essi
giacciono affiancati, ed è convinto che i nostri manti si scambino
esperienze ed emozioni secondo una modalità che nessuno di noi
poteva prevedere.
Devo
ammettere che il tatto con Fatih è una esperienza straordinaria. Se
necessario potrei ricominciare a nutrirmi in solitudine senza troppa
fatica, sarebbe invece insopportabile tornare a una vita senza tatto.
Nel mio mondo, nel mondo ai tempi di AA24, la vicinanza di cui Fatih
ed io godiamo è uno strepitoso privilegio, e la scena dei nostri
corpi placidamente accostati anche per molte ore di seguito continua
a sembrarmi prodigiosa. [NOTA 2]
Documento 21.12AA45 –
2.11AA24. PS. Türkiye Türkçesi [NOTA 3]
Documento 22.12AA45 –
3.11AA24. PS. Ormanda bulgular [NOTA 4]
[1] [Nota di AA45]
L’interpretazione di tali sigle è più semplice di quanto possa
apparire. La prima serie indica l’anno di pubblicazione, la seconda
l’anno di composizione. Tale testo è dunque il ventesimo documento
pubblicato nel dodicesimo anno del 45° Archivista Alp, e invece è
il primo documento composto dal 24° Archivista Alp nell’undicesimo
anno dall’inizio del suo incarico. La sigla PS indica il gruppo dei
testi personali, di
contenuto autobiografico, che ogni archivista redige come legato alle
generazioni future. Le convenzioni riguardo alla datazione dei testi
risalgono ai tempi del primo archivista. Fu invece instaurata dai
successori la norma che raccomanda l’edizione dei documenti PS non
prima che sia trascorso il tempo di almeno venti archivisti (circa un
millennio). A quel punto il diario personale di un AA, sciolto da
ogni possibile legame con alcuno dei viventi, può assumere le
connotazioni di documento storico e diventare valida testimonianza di
una società scomparsa. Il primo archivista Alp (AA1), venerabile per
la sua opera di storico dei grandi eventi, purtroppo lasciò scritto
assai poco di sé. Quegli unici testi che trattano, con grande
ironia, delle sue difficoltà con le innovazioni tecnologiche sono
diventati classici della letteratura. Agli storici che desiderano
conoscere a fondo le società del passato rincresce sapere così poco
della personalità e dello stile di vita del primo archivista.
Sicché, per ovviare a tale mancanza, i miei predecessori
cominciarono a redigere testi autobiografici.
[2] [Nota di AA45] A
conclusione del documento si legge la seguente citazione: «After a
few seconds, when I felt it was safe to do so, I breathed a goodnight
kiss into his hair,
and could feel my own body tingle with happiness», Jonathan Coe, The
Terrible Privacy of Maxwell Sim.
Nell’archivio Alp non compare alcuna opera del romanziere Jonathan
Coe, del quale tuttavia si conserva una scarna notizia biografica. Da
tale testo si ricava che il romanzo da cui viene la citazione fu
pubblicato nel 2011. Il titolo induce a pensare che Maxwell Sim sia
il protagonista della vicenda narrata e suo è probabilmente il bacio
nei capelli. Si noti che AA24 segnala con il corsivo una sua
interpolazione consistente nella trasformazione presumibilmente del
pronome her in un più
attinente his,
riferito a Fatih. L’inglese ai tempi di AA24 non era lingua d’uso
comune, ma mentre adesso è nota solo a pochi glottologi, allora era
molto apprezzata e usata dagli intellettuali.
[3] [Nota di AA45] Le
convenzioni editoriali dell’archivio Alp prevedono che alla fine di
ogni testo, che sia parte di una serie, si fornisca accurata
indicazione del documento successivo. La lista PS di AA24 indica come
seguito di Fatihim un
testo intitolato Türkiye Türkçesi (Turco di
Turchia), ma questo documento in archivio non
c’è. Lo scrivente esclude che un documento dell’archivio Alp
possa andare perduto ed esclude pure che un archivista, o un suo
collaboratore, possa rendere un documento irrintracciabile a seguito
di errata collocazione. L’eventualità poi di una illecita
rimozione è semplicemente inaccettabile. Resta dunque l’ipotesi di
una incongruenza originaria tra la lista e i documenti effettivamente
depositati. Sebbene appaia inverosimile, AA24 avrebbe stralciato il
testo Türkiye Türkçesi
dalla serie PS trascurando di modificare la lista relativa. Il titolo
del testo mancante fa pensare ad una dissertazione di linguistica
storica o di sociolinguistica; e proprio il tema trattato,
all’apparenza non personale, potrebbe avere indotto AA24 ad
espungere il documento dalla serie. Tuttavia, tale testo non compare
in alcun altro versamento archivistico del mio predecessore. Da ciò
si ricava che AA24 decise di eliminare il documento, scelta a dir
poco sconcertante se attribuita a un archivista. Ma se questa è
l’ipotesi più ragionevole, se il documento non fu spostato da una
serie all’altra ma semplicemente cancellato, allora perchè non
premurarsi di cancellarne ogni traccia? Perché lasciare
testimonianza della sua esistenza nella lista non aggiornata? Un
rompicapo che rende AA24 e la sua serie PS ancora più interessanti.
[4] [Nota di AA45] In
assenza del documento Türkiye Türkçesi
si segnala il successivo nella lista, intitolato Ormanda
bulgular (Ritrovamenti nel bosco), in cui
Fatih è ancora protagonista degli eventi narrati.