Visione della città di V., di Daniele Speziari
Punteggio complessivo: 30,5
Fu uno spettacolo insperato: certo banale, ma capace di curare, almeno in parte e per effetto di un semplice sguardo furtivo, le ferite di un giovane voyeur, quale io ero. Fu un evento al quale mai e poi mai la Città dell'Amore, tale V., si sarebbe aspettata di assistere. Non che i suoi abitanti se ne fossero accorti, visto che il tutto dovette svolgersi a mezzanotte passata e nell'indifferenza generale, in una strada abitualmente formicolante di turisti tedeschi, giapponesi, uraniani e octopiani ma, da diverse ore, ormai svuotata. Erano tre giovani, che passeggiavano l'uno di fianco all'altro. Nell'ordine: una ragazza; un ragazzo; un altro ragazzo. Ebbene sì, una coppia, per quanto con le sembianze di un gruppetto di amici: una coppia scortata da un'amica.
Un gran bel quadretto, che avrebbe facilmente tratto in inganno occhi poco abituati a soffermarsi sui dettagli, poco esercitati o, semplicemente, distratti, come può ancora accadere ai giorni nostri, in barba alle lenti a contatto 4D! Con un po' di attenzione, si sarebbe notato il movimento ritmico e sincronico delle braccia: scrutando ancora meglio, sarebbe stato possibile scorgere un impercettibile contatto delle mani. Il quale contatto non si riduceva ad uno sfioramento. No: mi trovavo di fronte – udite udite – a due amanti che si tenevano per il mignolo! Quanto bastava per strappare all'istante un sorriso complice a me, che in quel mignolo vedevo una mano intera, e anche di più, e in quella notte solitaria il mezzogiorno più accecante. Non che tutto ciò potesse placare la mia sete: per me che mi trovavo, da sempre, su un isolotto perso da qualche parte alla confluenza di due fiumi, con l'acqua costantemente in vista e perennemente fuori dalla mia portata, la siccità era senza fine. Ma meglio che niente.
“Che froci schifosi! Bisognerebbe impiccarli tutti!”. Non ero io a pensare queste atrocità del Duemila, era il mio cervello a pensarle al posto mio. O forse erano, queste, voci provenienti da un altro cosmo e che mi penetravano nelle orecchie tramite i ricettori interplanetari. Ecco, qualche ominide sintonizzato su queste frequenze e in contatto con me stava assistendo al medesimo spettacolo e proferendo con indignazione quelle orribili parole, facendomi credere che vengano dalla mia mente. Impossibile! “Ah sì? E cosa credono di poter fare, questi culattoni? Per le strade della città di V.? Roba mai vista! È inammissibile!”. Cercavo con tutte le mie forze di respingere quelle voci, di sbarazzarmene, ma iniziavo a sospettare seriamente che il mio cervello fosse stato contaminato, e forse irrimediabilmente, da parole per tutta la vita lette ed ascoltate. Costretto ad una sorta di “doppio pensiero” in cui ricoprivo i ruoli, al contempo, dell'accusa e della difesa. “Ma io li adoro, loro due... vorrei tanto parlare con loro, guardarli dritto negli occhi, proteggerli, abbracciarli...”. Già, peccato che non avessero bisogno del mio aiuto, loro che, in quella tiepida notte d'estate, si lasciavano accarezzare dalla brezza, calpestando il suolo della città di V. con passi leggeri e sicuri, incuranti di tutto.
E chi mi assicura che non mi stessi sbagliando sul loro conto? Avrei voluto incrociare i loro sguardi, anzi fissarli, entrambi, abbastanza a lungo da sondare il loro stato d'animo vero, ed eventualmente invidiarli qualora dalla mia indagine fosse emerso che, sì, erano davvero felici. Purtroppo mi era stato concesso di guardarli solo per pochi secondi, da lontano … e da dietro! Troppo poco persino per delle congetture. Scrutandoli mentre si allontanavano, mi era tuttavia parso che uno dei due fosse a disagio, come se facesse uno sforzo abnorme per sfiorare l'altro mignolo. Cercavo allora di sentire sulla mia pelle il sudore che colava sulla sua (e non a causa della calura), nel mio petto il suo cuore palpitante a tambur battente (e non soltanto per effetto della passione amorosa). Avrei voluto impadronirmi dei suoi sensi, penetrare i suoi pensieri, vedere attraverso i suoi occhi – insomma, mi figuravo che tutti quegli strumenti di cui la scienza, già alla fine del secolo scorso, prometteva di dotarci, fossero già realmente a mia disposizione.
Un gran bel quadretto, che avrebbe facilmente tratto in inganno occhi poco abituati a soffermarsi sui dettagli, poco esercitati o, semplicemente, distratti, come può ancora accadere ai giorni nostri, in barba alle lenti a contatto 4D! Con un po' di attenzione, si sarebbe notato il movimento ritmico e sincronico delle braccia: scrutando ancora meglio, sarebbe stato possibile scorgere un impercettibile contatto delle mani. Il quale contatto non si riduceva ad uno sfioramento. No: mi trovavo di fronte – udite udite – a due amanti che si tenevano per il mignolo! Quanto bastava per strappare all'istante un sorriso complice a me, che in quel mignolo vedevo una mano intera, e anche di più, e in quella notte solitaria il mezzogiorno più accecante. Non che tutto ciò potesse placare la mia sete: per me che mi trovavo, da sempre, su un isolotto perso da qualche parte alla confluenza di due fiumi, con l'acqua costantemente in vista e perennemente fuori dalla mia portata, la siccità era senza fine. Ma meglio che niente.
“Che froci schifosi! Bisognerebbe impiccarli tutti!”. Non ero io a pensare queste atrocità del Duemila, era il mio cervello a pensarle al posto mio. O forse erano, queste, voci provenienti da un altro cosmo e che mi penetravano nelle orecchie tramite i ricettori interplanetari. Ecco, qualche ominide sintonizzato su queste frequenze e in contatto con me stava assistendo al medesimo spettacolo e proferendo con indignazione quelle orribili parole, facendomi credere che vengano dalla mia mente. Impossibile! “Ah sì? E cosa credono di poter fare, questi culattoni? Per le strade della città di V.? Roba mai vista! È inammissibile!”. Cercavo con tutte le mie forze di respingere quelle voci, di sbarazzarmene, ma iniziavo a sospettare seriamente che il mio cervello fosse stato contaminato, e forse irrimediabilmente, da parole per tutta la vita lette ed ascoltate. Costretto ad una sorta di “doppio pensiero” in cui ricoprivo i ruoli, al contempo, dell'accusa e della difesa. “Ma io li adoro, loro due... vorrei tanto parlare con loro, guardarli dritto negli occhi, proteggerli, abbracciarli...”. Già, peccato che non avessero bisogno del mio aiuto, loro che, in quella tiepida notte d'estate, si lasciavano accarezzare dalla brezza, calpestando il suolo della città di V. con passi leggeri e sicuri, incuranti di tutto.
E chi mi assicura che non mi stessi sbagliando sul loro conto? Avrei voluto incrociare i loro sguardi, anzi fissarli, entrambi, abbastanza a lungo da sondare il loro stato d'animo vero, ed eventualmente invidiarli qualora dalla mia indagine fosse emerso che, sì, erano davvero felici. Purtroppo mi era stato concesso di guardarli solo per pochi secondi, da lontano … e da dietro! Troppo poco persino per delle congetture. Scrutandoli mentre si allontanavano, mi era tuttavia parso che uno dei due fosse a disagio, come se facesse uno sforzo abnorme per sfiorare l'altro mignolo. Cercavo allora di sentire sulla mia pelle il sudore che colava sulla sua (e non a causa della calura), nel mio petto il suo cuore palpitante a tambur battente (e non soltanto per effetto della passione amorosa). Avrei voluto impadronirmi dei suoi sensi, penetrare i suoi pensieri, vedere attraverso i suoi occhi – insomma, mi figuravo che tutti quegli strumenti di cui la scienza, già alla fine del secolo scorso, prometteva di dotarci, fossero già realmente a mia disposizione.
Ma la coppia, oramai distaccatasi dal suo satellite, si era nel frattempo dileguata. Non potendo sopportare l'idea di privarmi di uno spettacolo tanto gustoso e tanto raro, decisi allora di accelerare il passo e di ridurre la distanza che mi separava dai due. Immaginai che si fossero diretti al parcheggio delle astronavi, nello spiazzo dove, in tempi remoti, sorgeva il palazzo delle Poste. Non tardai a constatare che non mi ero affatto sbagliato: da dietro la statua dell'antico sindaco F. T., dove avevo fatto giusto in tempo ad appostarmi, li scorsi infatti in procinto di guadagnare il loro mezzo. A questo punto, mano nella mano (intera). Una bella astronave, dipinta, all'esterno, di sei strisce colorate, orizzontali. Priva di targa.
Li vidi avvicinarsi alla porta d'ingresso, che si dilatò progressivamente fino a consentire loro di entrare, per poi richiudersi con un movimento circolare retrogrado, non senza aver lasciato intravvedere un talamo coperto di piume rosa e delle pareti che riproducevano i sei colori esterni, nella medesima successione. Fine. Ero destinato a non conoscer mai i loro volti, tanto meno i loro nomi: mai più avrei ascoltato le loro voci. Non avevo dubbi sul fatto che la loro astronave fosse a prova di grande fratello: all'epoca, tutti i mezzi più avanzati (e questo lo era senz'altro) si erano dotati di meccanismi capaci di tutelare l'intimità della vita privata. Una coppia come la loro poi... doveva misurarsi con delle esigenze anche maggiori, rispetto a quelle dei comuni viaggiatori intergalattici.
Non mi diedi per vinto, tuttavia, pur sentendomi ormai escluso (là fuori) per sempre. Impossibilitato ad inserirmi in quell'intrigante microcosmo attraverso la tecnologia, avrei tentato l'assalto per la via dell'immaginazione. Mi portai quindi, con circospezione, nelle vicinanze dell'astronave, a stento dissimulato da un cespuglio, e mi lasciai trasportare... Già sentivo la respirazione affannosa, la frenesia di un desiderio troppo a lungo tenuto a freno e finalmente libero da catene, l'irruenza, l'ansia da prestazione. Mi lasciavo inebriare dai dolci effluvi sprigionati dalla pelle del mio amato, cedevo a lui incondizionatamente il controllo del mio corpo, che si sospingeva verso il suo con la forza delle onde del mare quando, all'inerzia del bel tempo, succede l'uragano che lacera le vele. Tutta immaginazione...
Non avevo considerato, però, che questa astronave, tanto resistente agli assalti degli sguardi di cittadini galattici troppo curiosi, potesse non essere insonorizzata. Ed ecco che giungevano a me lo sventolio delle vesti di cui i due si affrettavano a sbarazzarsi, lo sfregamento ritmico dei tessuti dei loro pantaloni, il contatto delle pelli nude, e quindi... il risucchio delle bocche che si divoravano con voluttà, senza saziarsi mai, i sospiri, prima appena percettibili e via via più nitidi, in un crescendo che sembrava non dovesse raggiungere mai l'acme, poi i gemiti alternati, poi le grida di piacere (chissà se anche gli altri abitanti di V. le avessero udite...). Parole sussurrate, bisbigliate, nella lingua sconosciuta di chissà quale popolo ma che avevo l'impressione di intendere alla perfezione. A tal punto che bramavo di unirmi a loro, di comunicare nella mia lingua – che era anche la loro – le mie emozioni. Desideravo spasmodicamente essere lì dentro, incarnarmi in uno della coppia (magari quello nervoso): godere come lui godeva, sentirmi desiderato come lui lo era, sentire il peso di un altro corpo addosso. Morivo a tal punto dal desiderio di abbandonare il mio corpo inutile e negletto dietro quel cespuglio, a tal punto attirato dal richiamo di quelle voci che mi sfondavano le orecchie e continuavano a riecheggiarmi dentro, senza più lasciarmi tregua, che di colpo... svenni.
Mi risvegliai la mattina seguente, la testa dolorante, sprofondato nel letto di ciottoli che ricopriva il parco adiacente il parcheggio, già affollato di astronavi di ogni colore. Di un unico colore, però: dell'altra, quella della coppia, nessuna traccia. Mi rialzai: mai nella vita mi era capitato di perdere il controllo fino a questo punto, e certamente, in quell'intervallo, il mio corpo senza vergogna aveva già avuto il tempo di offrirsi alla riprovazione generosa di molti degli abitanti della città di V. Poco male. Mi rialzai e raggiunsi il punto esatto in cui l'astronave era stata parcheggiata la veglia. Un altro mezzo, verniciato da cima a fondo di un nero sfavillante, aveva preso il suo posto. Qualcosa di minuscolo però, appena appena visibile, si stagliava contro quello sfondo uniforme, spuntava dalla massa di quell'astronave possente...
Una piuma rosa! Un segno che io soltanto, a V., avrei saputo interpretare (io il pazzo, io l'alieno). Non conoscevo ancora il nome del Pianeta, ma sapevo adesso con certezza di doverlo raggiungere a tutti i costi, e di non avere alternativa. E da allora, non ho mai smesso...
Li vidi avvicinarsi alla porta d'ingresso, che si dilatò progressivamente fino a consentire loro di entrare, per poi richiudersi con un movimento circolare retrogrado, non senza aver lasciato intravvedere un talamo coperto di piume rosa e delle pareti che riproducevano i sei colori esterni, nella medesima successione. Fine. Ero destinato a non conoscer mai i loro volti, tanto meno i loro nomi: mai più avrei ascoltato le loro voci. Non avevo dubbi sul fatto che la loro astronave fosse a prova di grande fratello: all'epoca, tutti i mezzi più avanzati (e questo lo era senz'altro) si erano dotati di meccanismi capaci di tutelare l'intimità della vita privata. Una coppia come la loro poi... doveva misurarsi con delle esigenze anche maggiori, rispetto a quelle dei comuni viaggiatori intergalattici.
Non mi diedi per vinto, tuttavia, pur sentendomi ormai escluso (là fuori) per sempre. Impossibilitato ad inserirmi in quell'intrigante microcosmo attraverso la tecnologia, avrei tentato l'assalto per la via dell'immaginazione. Mi portai quindi, con circospezione, nelle vicinanze dell'astronave, a stento dissimulato da un cespuglio, e mi lasciai trasportare... Già sentivo la respirazione affannosa, la frenesia di un desiderio troppo a lungo tenuto a freno e finalmente libero da catene, l'irruenza, l'ansia da prestazione. Mi lasciavo inebriare dai dolci effluvi sprigionati dalla pelle del mio amato, cedevo a lui incondizionatamente il controllo del mio corpo, che si sospingeva verso il suo con la forza delle onde del mare quando, all'inerzia del bel tempo, succede l'uragano che lacera le vele. Tutta immaginazione...
Non avevo considerato, però, che questa astronave, tanto resistente agli assalti degli sguardi di cittadini galattici troppo curiosi, potesse non essere insonorizzata. Ed ecco che giungevano a me lo sventolio delle vesti di cui i due si affrettavano a sbarazzarsi, lo sfregamento ritmico dei tessuti dei loro pantaloni, il contatto delle pelli nude, e quindi... il risucchio delle bocche che si divoravano con voluttà, senza saziarsi mai, i sospiri, prima appena percettibili e via via più nitidi, in un crescendo che sembrava non dovesse raggiungere mai l'acme, poi i gemiti alternati, poi le grida di piacere (chissà se anche gli altri abitanti di V. le avessero udite...). Parole sussurrate, bisbigliate, nella lingua sconosciuta di chissà quale popolo ma che avevo l'impressione di intendere alla perfezione. A tal punto che bramavo di unirmi a loro, di comunicare nella mia lingua – che era anche la loro – le mie emozioni. Desideravo spasmodicamente essere lì dentro, incarnarmi in uno della coppia (magari quello nervoso): godere come lui godeva, sentirmi desiderato come lui lo era, sentire il peso di un altro corpo addosso. Morivo a tal punto dal desiderio di abbandonare il mio corpo inutile e negletto dietro quel cespuglio, a tal punto attirato dal richiamo di quelle voci che mi sfondavano le orecchie e continuavano a riecheggiarmi dentro, senza più lasciarmi tregua, che di colpo... svenni.
Mi risvegliai la mattina seguente, la testa dolorante, sprofondato nel letto di ciottoli che ricopriva il parco adiacente il parcheggio, già affollato di astronavi di ogni colore. Di un unico colore, però: dell'altra, quella della coppia, nessuna traccia. Mi rialzai: mai nella vita mi era capitato di perdere il controllo fino a questo punto, e certamente, in quell'intervallo, il mio corpo senza vergogna aveva già avuto il tempo di offrirsi alla riprovazione generosa di molti degli abitanti della città di V. Poco male. Mi rialzai e raggiunsi il punto esatto in cui l'astronave era stata parcheggiata la veglia. Un altro mezzo, verniciato da cima a fondo di un nero sfavillante, aveva preso il suo posto. Qualcosa di minuscolo però, appena appena visibile, si stagliava contro quello sfondo uniforme, spuntava dalla massa di quell'astronave possente...
Una piuma rosa! Un segno che io soltanto, a V., avrei saputo interpretare (io il pazzo, io l'alieno). Non conoscevo ancora il nome del Pianeta, ma sapevo adesso con certezza di doverlo raggiungere a tutti i costi, e di non avere alternativa. E da allora, non ho mai smesso...
Punteggio complessivo: 30,5